Risoluzione del rapporto di lavoro
Il rapporto di lavoro può venir meno per varie cause. Le più importanti che realizzano la conclusione degli effetti del contratto di lavoro sono le dimissioni e la risoluzione consensuale (oltre al licenziamento). Nei paragrafi che seguono analizzeremo nel dettaglio la disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro con accordo tra le parti, nonché le dimissioni volontarie.
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1. Le dimissioni volontarie
La presentazione delle dimissioni da parte del lavoratore costituisce l’esercizio di un suo diritto potestativo, ed è espressione della necessaria temporaneità dei vincoli obbligatori e, di conseguenza, della possibilità di stabilire ed organizzare il proprio futuro.
In altre parole, il lavoratore unilateralmente decide di interrompere il rapporto di lavoro in essere.
In generale, la legge prevede che il lavoratore non sia tenuto a fornire alcuna motivazione, ma solo a rispettare il termine di preavviso, fissato dai contratti collettivi, dagli usi o dall’equità, ovvero, in alternativa, a corrispondere la relativa indennità sostitutiva, il cui importo è, di regola, pari alla retribuzioni che sarebbero spettate al dipendente per il periodo di preavviso non lavorato.
Il termine di preavviso, infatti, consente al datore di lavoro di riorganizzarsi e a provvedere, nel frattempo, a cercare un nuovo prestatore di lavoro.
E’ bene ricordare che nel termine di preavviso non sono conteggiati i giorni di assenza per malattia, infortunio, ferie, maternità o altri congedi.
Allo stato attuale, le dimissioni non si presentano più con l’invio di una semplice raccomandata con ricevuta di ritorno al datore di lavoro.
La nuova normativa prevede che dal 12 marzo 2016 il lavoratore debba comunicare le proprie dimissioni attraverso una procedura telematica, mediante l’uso di appositi moduli resi disponibili dal Ministero del Lavoro. Ciò consente di contrastare la prassi delle dimissioni in bianco, ossia quelle ottenute dal datore di lavoro con forzature e pressioni.
È possibile inviare la domanda direttamente tramite la procedura guidata all’interno del sito Inps, oppure tramite un soggetto abilitato, quale ad esempio un patronato, un’organizzazione sindacale, il quale trasmetterà i dati al datore di lavoro e alla Direzione del lavoro territoriale competente, per conto del lavoratore.
Infine, deve essere cura del lavoratore indicare la data di decorrenza delle dimissioni, da intendersi come il giorno successivo all’ultimo giorno di lavoro.
Nell’ipotesi di ripensamento, il lavoratore ha un termine di sette giorni dalla trasmissione del modulo per revocare le proprie dimissioni, attraverso la medesima modalità.
1.1. Le dimissioni per giusta causa
Le dimissioni per giusta causa sono provocate da gravi e colpevoli inadempimenti del datore di lavoro.
In questi casi, il lavoratore non è tenuto a rispettare il termine di preavviso, in quanto l’inadempimento del datore di lavoro è talmente grave da non consentire al lavoratore, nemmeno per un giorno in più, la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Sarà il datore di lavoro, invece, a dover corrispondere al lavoratore dimissionario l’indennità di mancato preavviso.
A tal proposito, si ricorda che il datore di lavoro ha nei confronti del proprio lavoratore due tipologie di doveri:
- doveri patrimoniali, quali ad esempio l’obbligo di corrispondere la retribuzione o il Tfr;
- doveri non patrimoniali, ossia quelli riguardanti la personalità del lavoratore, quali ad esempio l’obbligo di tutelarne l’integrità fisico – psichica, di garantirgli la fruizione dei giorni di malattia e altri.
Tra gli esempi di giusta causa, tali da giustificare le dimissioni del lavoratore, possono citarsi:
il reiterato mancato pagamento degli stipendi, il demansionamento illecito, ovvero condotte vessatorie e mobbizzanti nei suoi confronti.
2. Differenza tra dimissioni volontarie e risoluzione consensuale
Come anticipato, il lavoratore e il datore di lavoro possono decidere di comune accordo di sciogliersi dal vincolo contrattuale, in quanto entrambe le parti non trovano più conveniente proseguire tale rapporto.
È importante comprendere come avviene la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Ciò, infatti, può verificarsi attraverso due modalità:
- manifestazione espressa delle parti, mediante, cioè, la sottoscrizione di un accordo di risoluzione del rapporto di lavoro;
- comportamenti concludenti, da cui si desume, senza ombra di dubbio, che le parti non intendono proseguire il rapporto di lavoro.
Basti pensare che la semplice adesione del lavoratore alla proposta del datore di lavoro rappresenta una risoluzione consensuale. La proposta del datore di lavoro può avere ad oggetto, ad esempio, la corresponsione di un contributo economico a tutti coloro che presentino le dimissioni entro un determinato periodo di tempo.
Le parti possono decidere gli effetti a partire dal quale il contratto di lavoro viene meno:
- potranno fissare un termine di decorrenza immediata, nel senso che il contratto di lavoro si risolverà nel momento stesso in cui verrà sottoscritto l’accordo di risoluzione;
- potranno fissare un termine di decorrenza differita, nel senso che il prestatore continuerà a lavorare nell’azienda nel periodo intercorrente la sottoscrizione dell’accordo e il termine finale, almeno che non si decida che il lavoratore sia collocato in aspettativa o goda delle ferie.
L’accordo di risoluzione, inoltre, può prevedere a carico del datore di lavoro la corresponsione di somme ulteriori rispetto a quelle normalmente spettanti, quali ad esempio il Tfr o il pagamento delle ferie arretrate.
Ci si riferisce all’incentivo all’esodo, sul quale non vengono pagati i contributi Inps e, soprattutto, avente un trattamento fiscale di favore rispetto a quello ordinario.
Invero, le aziende adottano la risoluzione consensuale in varie situazioni che possono essere le più disparate.
Fino al 12 marzo 2016, datori e dipendenti non erano tenuti a particolari adempimenti per procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro, salvo l’obbligo di comunicazione al Centro per l’impiego entro i 5 giorni successivi all’ultimo lavorato.
Come visto per le dimissioni, per effetto della nuova normativa, anche in caso di risoluzione consensuale, il lavoratore dovrà formalizzare la sua volontà di interrompere il rapporto esclusivamente con modalità telematiche. Ogni altra modalità di comunicazione è inefficace. Ovviamente, il lavoratore dovrà indicare che si tratta di risoluzione consensuale e riportare la data di decorrenza della cessazione del rapporto di lavoro.
ll lavoratore può revocare la propria dichiarazione di risoluzione consensuale entro 7 giorni dalla trasmissione di essa, con le stesse modalità adottate per l’invio.
2.1 Casi particolari di risoluzione consensuale
Una particolare procedura è prevista in caso di risoluzione consensuale relative a:
- lavoratrice durante il periodo di gravidanza;
- lavoratrice o lavoratore durante i primi 3 anni di vita del bambino o nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento o, in caso di adozione internazionale, nei primi 3 anni decorrenti dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottato, o della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento.
In tali ipotesi, il lavoratore deve presentare un’apposita richiesta al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro, allegando l’accordo di risoluzione consensuale.
Successivamente, l’istituzione compente provvede a:
- convocare il dipendente al fine di verificare l’effettiva volontà di interrompere il rapporto;
- rilasciare un provvedimento di convalida al lavoratore e all’azienda entro 45 giorni dalla richiesta.
È facile notare come la risoluzione sia efficace solo se convalidata, altrimenti rimane in stato di quiescenza e priva di qualsiasi effetto.
Andrea Lillo
Fonti normative
Codice Civile: artt. 1372, 2096 - 2113 – 2118 – 2119.
Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151: Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità.
Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151: Testo Unico sulla maternità e paternità.
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