Mobbing sul lavoro
Cosa fare in caso di mobbing? Tutela giuridica del lavoratore dipendente
Secondo i dati diffusi dall’Istat nel 2010, su un totale di oltre 29 milioni di lavoratori in Italia, il 9% (2milioni 633mila) dichiara di aver subito nel corso della vita episodi di mobbing. La ricerca, condotta tra settembre 2008 e aprile 2009 sulla base di una convenzione stipulata con il dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha finanziato il progetto, ha messo in evidenza un ampio fenomeno di disagio nelle relazioni lavorative: su un campione di individui intervistati di età compresa tra i 15 e i 70 anni, il 6,7% riferisce di essere stato vittima di mobbing negli ultimi 3 anni. La fascia di età più esposta è quella compresa tra i 25 e i 34 anni, le donne subiscono più degli uomini. Dal punto di vista geografico, le vessazioni sono maggiori nel Sud Italia (7,8%) mentre, per quanto riguarda la categoria professionale, le vittime sono soprattutto impiegati (47,2%) e operai (34,3%)
1. Cosa si intende per mobbing?
Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, assalire, attaccare, molestare. Nel linguaggio comune, il termine si riferisce ad una serie di atti di violenza morale o psicologica posti in essere sul luogo di lavoro, ripetuti nel tempo e in modo sistematico e che portano ad un deterioramento delle condizioni di lavoro tali da compromettere l’immagine e la dignità, la salute e la professionalità del lavoratore e persino le sue relazioni sociali.
A titolo meramente esemplificativo, rientrano nella fattispecie i continui richiami ingiustificati, casi di trasferimento ingiustificato, dequalificazione o demansionamento o anche sovraccarico di lavoro.
Elenchiamo i diversi tipi di mobbing:
- Mobbing individuale, quando le attività vessatorie sono rivolte nei confronti di un unico soggetto;
- Mobbing collettivo se indirizzato a un intero gruppo di lavoratori;
- Mobbing verticale, detto anche “bossing”, quando l’attività vessatoria è posta in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico;
- Mobbing orizzontale in cui la violenza psicologica proviene dai colleghi di lavoro.
Spesso le tipologie di mobbing si intrecciano e si alimentano a vicenda: il lavoratore subisce continue offese e critiche, viene privato degli strumenti necessari per svolgere il proprio lavoro, escluso dai processi informativi, fino al totale isolamento.
Le conseguenze per il lavoratore vittima di mobbing possono essere notevoli e riguardare la salute fisica e mentale: stress, depressione, demotivazione e calo dell’autostima, disturbi da stress post traumatico (PTSD). A livello organizzativo il fenomeno del mobbing produce maggiore assenteismo e malattia, minore produttività con notevoli costi per l’azienda e una stima di spesa per l’Italia di circa 5 miliardi di euro all’anno.
2. Come la legge tutela il lavoratore dal mobbing
Nel corso degli ultimi anni, sono stati presentati vari progetti e disegni di legge in materia di mobbing. Tuttavia, ancora oggi nel nostro Paese manca una disciplina specifica che definisca in modo giuridicamente corretto, prevenga e punisca il fenomeno.
In assenza di una normativa, la magistratura procede interpretando caso per caso, seguendo la giurisprudenza.
In particolare, una recente sentenza della Corte di Cassazione stabilisce che affinché si configuri il reato di mobbing sono necessari i seguenti elementi costitutivi:
- Una pluralità di comportamenti vessatori, e non una singola condotta illecita, di carattere persecutorio, posti in essere nel contesto lavorativo;
- Requisito oggettivo: la frequenza, la durata e la reiterazione della condotta vessatoria:
- Un danno della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- Un nesso causale tra i comportamenti vessatori e il danno subito dalla vittima;
- L’elemento soggettivo, vale a dire uno specifico intento persecutorio dei confronti della vittima che fa da filo conduttore (dolo).
L’onere della prova è posta a carico della vittima, la quale dovrà provare gli episodi vessatori, la reiterazione e il carattere persecutorio degli stessi e, infine, il rapporto causa-effetto tra condotta lesiva e danno subito.
Il lavoratore vittima di mobbing ha diritto al risarcimento del danno. Laddove venga accertata la responsabilità del datore di lavoro, questi è chiamato a rispondere per inadempimento del contratto di lavoro (responsabilità contrattuale). L’art. 2087 c.c. infatti dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore.
Inoltre, la giurisprudenza sembra essere concorde nel riconoscere una responsabilità contrattuale al datore di lavoro anche per condotte poste in essere, sempre in ambito lavorativo, da soggetti terzi. In questo caso troverebbe applicazione l’art. 1228 c.c. in virtù del quale egli è responsabile anche per fatti dolosi o colposi dei terzi di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione. Nell’ipotesi in cui invece l’autore delle violenze psicologiche sia un collega, questi potrà essere chiamato a rispondere per responsabilità extracontrattuale, che ricorre nel caso in cui una persona provoca un danno ingiusto ad altra persona.
Per quanto riguarda la tutela e la responsabilità penale, il mobbing non rientra in una specifica fattispecie. La condotta illecita viene sanzionata di volta in volta facendola rientrare in fattispecie diverse: ingiuria, diffamazione, violenza privata, violenza sessuale, abuso d’ufficio, maltrattamenti.
3. Cosa fare in caso di mobbing?
Il fenomeno del mobbing è in costante aumento. Secondo giuslavoristi ed esperti in medicina del lavoro, in questi ultimi anni, complici la crisi e i tagli nelle aziende, le richieste di terapia psicologica per situazioni di pressione e vessazioni subite sul luogo di lavoro si sono moltiplicate.
In Italia, seppur in percentuali ancora ridotte rispetto ad altri Paesi europei, il mobbing colpisce trasversalmente lavoratori del settore privato e della Pubblica Amministrazione. Per quanto riguarda questi ultimi, la frequenza di episodi di mobbing nel settore pubblico ha spinto gli Enti a prevedere in sede di contrattazione collettiva la costituzione, all’interno di ciascuna amministrazione, di comitati paritetici incaricati di adottare tutte le misure idonee a prevenire e contrastare il fenomeno. Tra queste, la creazione di sportelli di ascolto e della figura del consigliere di fiducia e l’adozione di specifici codici di condotta.
La gravità e la rilevanza sociale del fenomeno hanno spinto la maggior parte dei Paesi europei, i Paesi scandinavi tra i primi, ad adottare leggi per contrastare il dilagare del fenomeno.
In Italia invece, al vuoto legislativo sulla materia si aggiunge una serie di provvedimenti peggiorativi delle tutele giuridiche dei lavoratori dipendenti. Tra questi, citiamo la modifica introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015, cd. Jobs Act, all’art. 2103 c.c. in materia di mansioni del lavoratore.
Il nuovo testo di fatto attribuisce al datore di lavoro la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni, a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale. Rispetto al passato, si perde quindi il riferimento al requisito della ”equivalenza” tra le nuove mansioni e quelle svolte in precedenza. Esso, inoltre, prevede la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili ad un livello di inquadramento inferiore in caso di riorganizzazione aziendale o nelle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva.
Fonti:
- Dati ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e Sicurezza del Lavoro);
- Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 2142 del 2017
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