In quali casi si può licenziare per giusta causa?

Il licenziamento per giusta causa è un’interruzione del rapporto di tipo disciplinare. Le ragioni sono particolarmente gravi e dunque non permettono la prosecuzione del rapporto di lavoro. Nel caso di specie il lavoratore non ha diritto neppure al preavviso.

1. Il licenziamento per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa si fonda unicamente su valide ragioni e non potrà mai trovare giustificazioni sulla base del gradimento o meno del datore di lavoro (per esempio per motivi di antipatia).

Oltre ai motivi di ristrutturazione aziendale, incapacità fisica o poca produttività del lavoratore, è importante analizzare quel tipo di licenziamento che si concreta qualora il dipendente si rendesse protagonista di gravissime violazioni all’interno dell’azienda.

Il licenziamento per giusta causa è un’azione di allontanamento di tipo disciplinare. È posto in essere sulla base di comportamenti non consoni che il lavoratore compie sul posto di lavoro. Si tratta di condotte talmente gravi che non permettono la prosecuzione del rapporto di lavoro. Pertanto, il licenziamento sarà immediato e senza neppure il preavviso.

Per condotta non consona si intendono non solo i comportamenti dolosi (ossia in malafede), ma anche quelle azioni ripetute nel tempo non intenzionali ma comunque colpevoli, tali da cagionare un danno effettivo all’azienda.

Questo modo di agire determina un’incrinatura del rapporto di fiducia tra datore e dipendente, una frattura talmente grave da non consentire un’ulteriore prosecuzione della relazione.

1.1 La verifica delle cause di licenziamento per giusta causa

Il datore di lavoro dovrà sempre verificare il comportamento illecito posto in essere dal lavoratore. Una condotta che concretamente metterà in discussione il rapporto di fiducia alla base del legame fra le parti.

Nel procedere alla valutazione, il datore dovrà tenere presente i seguenti aspetti:

  • la tipologia del singolo rapporto;
  • la posizione e la responsabilità del lavoratore nelle mansioni svolte. In tal caso, si dovrà ragionare per step: ad esempio, una presunta condotta non opportuna posta in essere dal capo del personale risulterà più grave rispetto alla stessa posta invece da un altro lavoratore;
  • l’importanza e la particolarità delle specifiche mansioni del dipendente nella struttura aziendale: ad esempio è più grave l’abbandono del posto per una guardia giurata che non per un addetto al magazzino;
  • i motivi che hanno fatto sì che il dipendente avesse un comportamento evidentemente scorretto: ad esempio, l’abbandono improvviso del posto del posto per soccorrere un collega in difficoltà è meno grave di quello effettuato per andare alla macchinetta del caffè;
  • la malafede o la non intenzionalità del comportamento evidentemente scorretto: il dipendente che volontariamente non obbedisce al superiore è più grave rispetto alla condotta negligente di chi, in un determinato momento, è stanco;
  • i danni prodotti all’azienda dalla violazione delle regole di condotta;
  • la personalità e la “storia aziendale” del lavoratore;

 

1.2 I casi di licenziamento per giusta causa

La valutazione della condotta scorretta in determinati casi giustifica il licenziamento per giusta causa, in altri invece può essere considerata di minore gravità. Sarà tuttavia necessario tener sempre conto del danno effettivamente arrecato alla realtà aziendale. Pertanto, ai fini del licenziamento per giusta causa rilevano sempre:

  • un eventuale furto posto a danno del datore;
  • l’insubordinazione;
  • l’abbandono senza giustificazioni apparenti del posto di lavoro;
  • rendere pubblici i segreti aziendali (che potrebbe comportare il reato di spionaggio industriale);
  • false malattie o falsi infortuni (soprattutto se il falso verrà poi accertato dal medico del lavoro);
  • la falsa timbratura del cartellino (attenzione: incorre nella stessa sanzione disciplinare anche il collega che dovesse timbrare al posto nostro);
  • un uso non corretto dei permessi;
  • una condotta penalmente rilevante al di fuori del lavoro.

In presenza di una contestazione del licenziamento per giusta causa da parte del dipendente, spetterà al datore dimostrare l’esistenza della giusta causa.

2. Le differenze tra licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa è “giustificato” da gravi motivi di condotta che non permettono una prosecuzione del rapporto di lavoro. Si ha dunque una condotta che lede in via definitiva la fiducia su cui si basa il rapporto di lavoro tra lavoratore e datore.

Viceversa, nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo, si concretizza un comportamento scorretto da parte del lavoratore, ma non così grave da comportare un’interruzione immediata e senza preavviso del rapporto di lavoro.

Nel licenziamento per giusta causa, a differenza del giustificato motivo soggettivo, è richiesta una precisa e minuziosa verifica della gravità di condotta tale da pregiudicare in via definitiva il rapporto fiduciario su cui si basa il contratto di lavoro. Gravità di condotta che, oltre a costituire un effettivo inadempimento contrattuale, produce effetti anche nell’ambiente lavorativo.

Pertanto i seguenti motivi, per quanto gravi, non pregiudicheranno mai a tal punto il rapporto datore/dipendente da giustificare un licenziamento per giusta causa:

  • se la violazione del dipendente sia in realtà dipesa da una mancanza del datore;
  • qualora ci fosse il fallimento del datore;
  • qualora si ricadesse in una cessione d’azienda;
  • qualora si ricadesse nella liquidazione amministrativa coatta dell’impresa;
  • in caso di incapacità manifesta del lavoratore.

Va sottolineato che, nel momento in cui si dovesse accertare l’assenza della giusta causa di licenziamento, quest’ultimo sarà assolutamente illegittimo. Dunque al lavoratore spetteranno tutte le tutele previste dalla legge.

Fonti normative

Legge 300/1970

Dlgs n. 23/2015

Art. 2119 c.c.

Cassazione sentenza n. 13512/2016

Cassazione sentenza n. 26323/2014

Cassazione sentenza n. 35/2011

Cassazione sentenza n. 7518/2010

Cassazione sentenza n. 10541/2008

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Avvocato Valerio Andalò

Valerio Andalò