Cosa si intende per licenziamento collettivo?
Il licenziamento collettivo, detto tecnicamente “procedura di mobilità”, consiste nell’adozione da parte di un’azienda di un procedimento che porta ad una significativa riduzione del personale, con l’obiettivo di far fronte ad una situazione di crisi tramite una ristrutturazione aziendale, oppure in previsione della chiusura definitiva dell’azienda stessa.
1. Il licenziamento collettivo
Il licenziamento collettivo è una fattispecie regolata dalla legge 223 del 1991, poi notevolmente modificata con la legge 92 del 2012, comunemente nota come Legge Fornero. Nello specifico l’articolo 4 di suddetta legge, prevede che si possa ricorrere alla procedura di mobilità quando un’azienda, che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi, né di trovare misure alternative (comma 1).
Per avviare il processo di licenziamento collettivo, l’azienda deve darne comunicazione in forma scritta ai Sindacati, o in mancanza di essi, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale (comma 2), indicando in primo luogo le ragioni che determinano la situazione di eccedenza e successivamente i motivi per cui non sia possibile attuare misure alternative al licenziamento collettivo, il numero ed i profili professionali del personale eccedente ed infine le tempistiche di attuazione del programma di riduzione del personale (comma 3).
In seguito alla comunicazione aziendale ed entro sette giorni da essa, le organizzazioni sindacali e le associazioni di categoria possono chiedere un esame congiunto per esaminare le cause dell’eccedenza di personale e se vi sia la possibilità di reimpiego del personale stesso, ad esempio mediante contratti di solidarietà oppure prevedendo una maggior flessibilità per quanto riguarda il tempo lavorativo, o ancora, ricorrendo a misure sociali di accompagnamento per facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati (comma 5).
Se l’esame congiunto non produce esiti positivi, è ancora possibile operare un nuovo confronto, detto questa volta confronto trilaterale poiché operato su iniziativa della Direzione Provinciale del Lavoro; se anche al termine di questo incontro non è stato trovato un accordo tra le parti, l’azienda ha in ogni caso facoltà di procedere al licenziamento delle eccedenze lavorative.
2. Lavoratori in mobilità
I lavoratori da licenziare vengono individuati in relazione alle esigenze tecnico-produttive, nonché in base all’anzianità ed ai carichi di famiglia. In seguito gli stessi vengono posti in mobilità: l’azienda è tenuta a versare al lavoratore posto in mobilità una somma di sei volte superiore al trattamento mensile spettante a quest’ultimo, somma che può venire ridotta della metà in caso di un accordo precedente con le organizzazioni sindacali (Art. 5, commi 1 e 4).
I lavoratori collocati in mobilità hanno diritto ad un’indennità per un periodo massimo di dodici mesi, che diventano ventiquattro per i lavoratori che hanno compiuto quarant’anni e trentasei per coloro che ne hanno compiuti cinquanta, con una percentuale spettante del cento per cento per i primi dodici mesi e dell’ottanta per cento dal tredicesimo al trentaseiesimo o quarantottesimo mese (Art. 7, commi 1 e 2).
Va considerato inoltre che il lavoratore può anche perdere il proprio diritto alla mobilità, ad esempio, qualora rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione professionale autorizzato dalla Regione (o non lo frequenti regolarmente), oppure rinunci ad un lavoro professionalmente equivalente, con una retribuzione non inferiore del dieci per cento rispetto al lavoro di provenienza (Art. 9, comma 1).
3. Le modalità di opposizione al licenziamento collettivo
Esistono alcuni scenari per porsi in opposizione all’ipotesi della procedura di mobilità voluta dal datore di lavoro: un primo esempio è costituito dal commissariamento governativo, il quale può essere generale, come previsto dalla legge 400/1988 che disciplina l’attività di Governo ed in questo caso, è proprio il Governo che nomina dei commissari straordinari con l’obiettivo di raggiungere scopi specifici prefissati dal Parlamento o dal Governo stesso; oppure il commissariamento può prevedere una procedura di amministrazione straordinaria, qualora il tribunale accerti uno stato di insolvenza, secondo quanto previsto dalla legge 270/1999 (la legge Prodi) e dalla legge 347/2003 (la legge Marzano).
Nel caso della legge Marzano, l’amministrazione straordinaria viene richiesta dall’imprenditore che desideri operare una ristrutturazione aziendale; nel caso della legge Prodi, invece, la procedura viene imposta dal giudice fallimentare su richiesta dei creditori. In quest’ultimo caso, dunque, un’azienda indebitata può subire una procedura di licenziamento collettivo e finire in amministrazione controllata anche contro la volontà dell’imprenditore.
In una situazione di insolvenza l’interesse dei creditori deve essere conciliato con il mantenimento della forza lavoro aziendale, come la stessa legge Prodi afferma (art. 63), ponendo innanzitutto l’obbligo di consultazione sindacale e successivamente anche quello di considerare nella scelta dell’acquirente, non solo il prezzo offerto da quest’ultimo ma anche la qualità del suo piano industriale, con inoltre l’obbligo di mantenere per almeno due anni l’operatività dell’azienda.
Queste sono le uniche possibilità di tutela per i lavoratori e l’occupazione, poiché in generale, per quanto concerne questo tipo di procedure, è la garanzia dei creditori ad avere interesse prioritario.
Infine, l’ultimo metodo di opposizione al licenziamento collettivo, è dato dall’impugnazione dello stesso ad opera del lavoratore dipendente, che può avvenire entro sessanta giorni dalla data della sua comunicazione. In questo caso sarà il giudice a decidere, e se il licenziamento viene dichiarato illegittimo, ad esempio, perché ritenuti irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, il lavoratore deve venire reintegrato, avendo anche diritto ad un risarcimento del danno (Art. 18 dello Statuto dei lavoratori).
Va da ultimo segnalato come non sia permesso che un licenziamento collettivo venga tradotto in numerosi licenziamenti individuali, come hanno stabilito alcune sentenze della Corte Costituzionale (480 del 2001; 5828 del 2002), non solo nel caso di licenziamento collettivo giudicato illegittimo, ma in generale in tutti i casi di licenziamento collettivo.
Per concludere, risulta evidente come le tutele del lavoratore nei confronti della disciplina del licenziamento collettivo siano a tutt’oggi limitate, e le riforme degli ultimi anni non stanno probabilmente dando il contributo sperato dai sindacati, nonché dal lavoratore stesso.
Se ad esempio, un giudice, pur determinando che non esistono gli estremi per un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, non considera il fatto alla base del recesso “manifestatamente insussistente”, la violazione della procedura di licenziamento collettivo da parte del datore di lavoro potrebbe tradursi semplicemente in un’indennità corrisposta al lavoratore, senza però comportare il suo reintegro in azienda, come avveniva in passato in questi casi.
Oggi, invece, è solo e soltanto il caso di “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento” che comporta necessariamente il reintegro del lavoratore nei casi di licenziamento collettivo.
Fonti normative
L. 223/1991 (In particolare art. 4, 5, 7 e 9).
L. 92/2012.
L. 400/1988.
L. 270/1999.
L. 347/2003.
Art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
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