Licenziamento ingiustificato e indennità di fine rapporto
È giusto che l’indennità prevista per un lavoratore ingiustamente licenziato si basi solo sull’anzianità dello stesso? È quanto si è chiesta la Corte Costituzionale chiamata a esaminare l’art. 3, comma 1 del Dlgs 23/2015, ovvero la disciplina riguardante il “contratto a tutele crescenti” previsto sia dal Jobs Act (legge delega 183/2014) sia dal Decreto legge 87/2018 (“decreto dignità”) con le modifiche riguardanti l’innalzamento della misura minima e massima dell’indennità in tema.
Indennità di fine rapporto
Come specificato dalla norma, l’indennità prevista per fine ingiusta del rapporto lavorativo deve essere «un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». A detta della Corte, si tratta di una cifra standardizzata per tutti i lavoratori con la stessa anzianità e che non terrà conto del danno provocato dall’ingiusta estromissione dal posto di lavoro.
La sentenza n. 194 conclude l’incostituzionalità di tale principio di calcolo. Per prima cosa, la disposizione in esame entra in conflitto con il principio di uguaglianza in quanto pura omologazione di situazioni differenti. L’anzianità, infatti, non è mai stata e non può essere l’unico parametro di calcolo sul quale fondare l’indennità di fine rapporto.
Nel caso di un licenziamento ingiustificato, poi, sono molteplici i fattori che possono influire sul calcolo e il magistrato deve poter analizzarli e comprendere, eventualmente, tutti senza alcun impedimento legislativo.
Un altro punto di incostituzionalità si ritrova non conflitto col principio di ragionevolezza. Se calcolata come previsto dalla norma, l’indennità non potrà essere adeguata né per lenire il torto subito dal lavoratore né per scoraggiare il lavoratore dal licenziare ancora ingiustamente.
Anzianità del servizio
La dipendenza con la sola anzianità di servizio, rende l’indennità inadeguata soprattutto per quanto riguarda i casi in cui l’anzianità non sarà elevata. In molti casi, infatti, non si può nemmeno ricorrere a quella che è la cifra minima, di 4 mesi prima e ora di 6.
Tutto ciò, sempre secondo i giudici, va a compromettere l’armonia degli interessi coinvolti: da una parte c’è l’impossibilità per una libera organizzazione dell’imprese, mentre dall’altra viene a mancare la giusta tutela per chi viene licenziato ingiustamente.
Licenziamento ingiustificato
Ultima, ma non meno importante, questione di illegittimità si ha nei confronti degli artt. 76 e 117 della Costituzione, il quale (in relazione con l’art. 24 della Carta sociale europea) sancisce «il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».
Sarà quindi il giudice interessato a esercitare in pieno la propria discrezionalità – rispettando comunque i limiti di indennizzo minimi (6 mensilità) e massimi (36 mensilità) – senza tenere conto solo della questione anzianità, ma soprattutto di tutti gli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizione delle parti)».
Emanuele Secco, Giuridica.net
Fonti