Corte d’Appello di Milano: il “fondo affitti” è discriminatorio
Il “Fondo sostegno affitti” promosso dalla regione Lombardia è ufficialmente discriminatorio. Questa è la decisione presa dalla Corte d’Appello di Milano riesaminando la causa proposta da una cittadina salvadoregna, con il supporto di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e APN (Avvocati per Niente). Finita anche sotto esame alla Corte Costituzionale per sospetta incostituzionalità nei requisiti stessi del fondo.
Fondo affitti discriminatorio per gli stranieri
Il contributo economico alla locazione per le famiglie in evidente stato di povertà (quantificato in meno di 7.000 euro di ISEE), secondo quanto stabilito dalla Regione Lombardia, può essere richiesto da tutti i cittadini che svolgono regolare attività lavorativa e che hanno una residenza continuativa di 5 anni nel territorio interessato.
Una norma davvero pensata per i più bisognosi, se non fosse che per i cittadini stranieri un ulteriore requisito rende l’accesso più ostico: regolare attività lavorativa e la residenza di 5 anni nella Regione o almeno 10 nel territorio dello Stato; tutto ciò, è bene rimarcarlo, solo per i cittadini stranieri.
È stata la Corte d’Appello stessa, visto il caso, a sottoporre i propri dubbi sulla legittimità del requisito discriminante alla Corte Costituzionale, la quale – con sentenza n. 166/2018 – ha dichiarato l’incostituzionalità del requisito di lungo-residenza. Detto ciò, il caso sollevato dalla cittadina salvadoregna è potuto riprendere e la Corte d’Appello di Milano ha ufficialmente dichiarato anche il requisito dell’esercizio di una regolare attività lavorativa.
L’ordine, ora, è che la Regione ammetta gli stranieri al fondo, cosicché possano essere ripristinato il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Il bando, quindi, dovrà essere riformulato, così da poter ricevere le domande di chi era stato discriminato.
Casi analoghi di discriminazione degli stranieri
Non è la prima volta che l’amministrazione regionale tenta di escludere gli stranieri, o al limite di rendergli la vita difficile.
Si ricorderà il caso ligure, per cui la Corte Costituzionale si era vista costretta a intervenire sulla legge che regolava gli accessi agli alloggi popolari. All’inizio si richiedeva l’obbligo di possedere un permesso di soggiorno valevole per almeno due anni unito a un’attività lavorativa, in seguito si era trasformata la norma esigendo l’obbligo di residenza di almeno 10 anni in Italia.
Per la risoluzione del caso, finito con la bocciatura della legge stessa, la Corte Costituzionale aveva fatto riferimento alla direttiva europea 2003/109/CE, ovvero il riconoscimento dello status di “soggiornante per lungo periodo”.
Il secondo caso, invece, vede coinvolta la Regione Veneto, la quale legge regionale per l’accesso agli asili nido (n. 6 del 2017) prevedeva una residenza ininterrotta di almeno 15 anni nel territorio, unita a un’attività lavorativa non per forza continuativa. Anche qui la Corte Costituzionale aveva considerato il leso principio di uguaglianza previsto dalla Costituzione, ma anche la libertà di circolazione garantita dai Trattati e dalla giurisprudenza prodotta dalla Corte di giustizia europea.
Emanuele Secco, Giuridica.net
Fonti