Truffa e frode: le differenze tra le due tipologie di reato

Qual è la differenza tra il reato di truffa e quello di frode nell’esercizio del commercio?

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1. Condotte diverse, gravità diversa

Nella nostra vita da consumatori, online e dal vivo, sarà capitato a chiunque di aver effettuato un acquisto rivelatosi poi diverso da come percepito inizialmente o persino dannoso e ingannevole.

La prima reazione è spesso chiedersi quale tutela possa garantirci il diritto penale.

Il nostro codice prevede a riguardo due fattispecie di reato: la truffa (art. 640 c.p.) e la frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.).

Mentre la truffa punisce chi, con artifici o raggiri, induca una persona in errore procurandosi un ingiusto profitto a suo danno, la frode nel commercio sanziona chi, nell’esercizio di un’attività commerciale, consegni all’acquirente un bene mobile che abbia un’origine, provenienza, quantità o qualità diversa da quella dichiarata o pattuita.

Il confine tra questi due delitti è spesso sottile, in quanto possono venire entrambi in rilievo in situazioni simili.

La principale differenza risiede nella diversa gravità delle condotte descritte nelle due norme: il reato di truffa è senza dubbio più grave della frode del commercio, in quanto implica uno o più atti compiuti al preciso fine di far cadere in errore l’altro contraente. Tale condotta deve essere necessariamente realizzata mediante un comportamento volto a far sembrare vera una falsa rappresentazione della realtà (artifici) e a convincere la vittima (raggiri).

Ad esempio, la vendita online di beni inesistenti o che poi non vengono realmente spediti, accompagnata spesso da accorgimenti informatici volti a celare la vera identità del venditore, rientra sempre nel reato di truffa.

Nel caso della frode nel commercio non è invece necessario che siano compiute attività artificiose finalizzate ad ingannare l’acquirente. Il reato infatti si perfeziona nel semplice caso in cui il commerciante consegni al cliente un prodotto diverso rispetto a quanto dichiarato o pubblicizzato, nella consapevolezza di tale difformità. Un esempio arrivato di frequente nelle aule giudiziarie è quello della vendita di un alimento che non abbia le caratteristiche di qualità certificata o origine controllata indicate nell’etichetta.

Ciò risponde alla finalità del reato di cui all’art. 515 c.p. di proteggere il bene giuridico della correttezza e buona fede negli scambi commerciali.

Va precisato tuttavia che, nonostante la norma faccia riferimento al “commercio”, la qualifica giuridica di “commerciante” non è un requisito fondamentale, dovendosi intendere con il termine commercio anche le attività non organizzate in via imprenditoriale (basti pensare che l’art. 515 c.p. include anche un semplice “spaccio aperto al pubblico”).

Un’ulteriore differenza è rappresentata dalle conseguenze economiche del fatto. Mentre il reato di truffa si consuma solo quando la vittima riporti un danno economico (rimanendo in caso contrario una tentata truffa), nulla di tutto ciò rileva nella fattispecie di frode. Il commerciante potrebbe aver venduto un prodotto diverso, ma di uguale valore e risponderebbe comunque del reato.

La differente gravità dei due delitti si riflette sia in termini di pena (la truffa è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, mentre la frode fino ad un massimo di due anni o con la multa fino a 2.065 euro), sia nella c.d. “clausola di riserva” presente nell’art. 515 c.p., in forza di cui la frode nel commercio è punibile “qualora il fatto non costituisca più grave reato”. Ciò significa che non è possibile rispondere di entrambi i reati a seguito di un’unica condotta. Vuol dire anche che, in tutti i casi in cui il commerciante si sia spinto oltre la mera vendita di una cosa per un’altra, contribuendo lui stesso a confondere o raggirare il cliente, risponderà del più grave reato di truffa.

Nonostante queste peculiarità nella prassi può comunque essere difficile distinguere i due reati, a chi spetta quindi decidere? La risposta - come per ogni altro reato - è ovviamente prima al Pubblico Ministero nella formulazione del capo di imputazione e poi infine al Giudice, che si pronuncia definitivamente sulla qualificazione giuridica del fatto in sentenza.

2. Il silenzio

Sia per il reato di truffa che di frode il silenzio tenuto su alcune circostanti determinanti per il consenso dell’acquirente è stato considerato punibile dalla giurisprudenza.

E’ un principio consolidato della Corte di Cassazione che: “In tema di truffa contrattuale, anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere costituisce elemento ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di un raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato” [1].

Con relazione al reato di frode nell’esercizio del commercio, la Suprema Corte ha affermato in una recente sentenza del 2018 [2] che risponde del reato di cui all’art. 515 c.p. il ristoratore che non indichi nel menu l’utilizzo di prodotti surgelati per la preparazione delle pietanze. Una pronuncia senza dubbio di grande interesse, in quanto conferma lo stringente obbligo per i gestori di ristoranti di essere trasparenti sull’origine degli alimenti anche quando il cliente non abbia richiesto espressamente chiarimenti a riguardo.

3. La procedibilità

Esistono differenze fra i due delitti anche nelle modalità attraverso le quali può instaurarsi il procedimento penale.

L’art. 640 c.p. prevede che la truffa sia punibile solo a querela della persona offesa: ciò vuol dire che la querela dovrà essere presentata entro 3 mesi dalla commissione del fatto o da quando si venga effettivamente a conoscenza di essere stati truffati, con la conseguenza che, in caso di mancato rispetto del termine, non sarà più possibile perseguire l’autore del reato in sede penale (potendosi comunque rivolgere al giudice civile). Tale previsione non vale nel caso in cui la truffa sia stata commessa in presenza delle seguenti circostanze aggravanti: se il fatto è commesso ingenerando nella persona il timore di un pericolo immaginario o di dover eseguire un ordine dell’autorità (art. 640 comma 2 n. 2 c.p.); se il fatto è stato commesso profittando di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (art. 61 n. 5 c.p.); se la truffa ha cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.). Quando sussistono le aggravanti in questione il responsabile sarà perseguibile d’ufficio, ossia anche solo per iniziativa della polizia giudiziaria o del Pubblico Ministero, e la persona offesa potrà denunciare il fatto senza dover tenere in conto il termine di 3 mesi per la presentazione della querela.

A differenza della truffa, il delitto di frode nel commercio è sempre perseguibile d’ufficio.

Il legislatore ha infatti deciso di optare per la perseguibilità d’ufficio per ragioni di tutela della collettività, proprio perché tali condotte nell’ambito del commercio possono esporre a pericolo un numero indeterminato di persone.

Edoardo Massari

Fonti normative

Art. 640 c.p.

Art. 515 c.p.

[1] Cass. Pen, Cass. pen., Sez. II, n. 41717 del 14/10/2009

[2] Cass. Pen., Sez. III, n. 38793 del 22/08/2018

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